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DONNE NELL'ARTE
L'ETERNO FEMMINILE TRA NATURA ED ARTIFICIO DA CAMILLE CLAUDEL AD OGGI
Introduzione
Le Donne nell’Arte
di Arpinè Sevagian
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Oggi l'attività creativa delle donne non sorprende nessuno. Anzi, nel campo della critica d'arte, delle direzioni museali e delle soprintendenze ,la presenza femminile è aumentata. A partire dal Novecento "il diritto all'arte", per le donne, viene esercitato in modo paritario, e questo è il risultato di un lungo e lento cammino, durato per secoli, prima, e divenuto invece veloce, poi.
La storia dell'arte per molti secoli è stata una disciplina orientata maggiormente verso il lavoro degli uomini, sia per quello che concerne la "produzione" che per ciò che riguarda la committenza, il collezionismo, lo studio, la tutela, la visione di soggetti ritenuti non decorosi per le donne. Il dibattito sulla condizione sociale delle donne che si sono dedicate alle arti, sulle discriminazioni e l’esistenza di un "femminismo", distinto e diverso dal “maschilismo” della pittura e della scultura, ha portato ad interventi che vanno dalla denuncia ideologica al film (ad esempio la produzione cinematografica sulla tormentata figura di Frida Kahlo nel cinema e poi il libro di Susan Vrelan La passione di Artemisia e altri prodotti editoriali e saggistici). Un volume di Martina Corgnati, poi, è un contributo, ed uno spunto per diverse osservazioni. Fino alle soglie del XX secolo le presenze femminili fra gli artisti erano episodiche ma, allo stesso tempo, molto affascinanti. Ricordiamo, inoltre, il ruolo importante svolto da alcune donne mecenate (maggiormente regnanti, come ad esempio la marchesa Isabella d'Este, la regina Cristina di Svezia e la zarina Caterina II). Non ci sono, invece, scritti femminili nell'ambito delle ricerche storico-artistiche e della trattatistica. Da qualche decennio a questa parte il rapporto è cambiato: la distinzione uomini/donne è caduta, è diventata irrilevante e questo è il risultato di un cammino lungo e lento per secoli, che poi è diventato rapido, deciso e sicuro negli ultimi decenni. In Italia, e nell'Occidente, non suscita alcun stupore o curiosità l'attività creativa delle donne, sia nel ramo della critica d'arte che delle direzioni museali, della sovrintendenza e anche dei ministeri, la presenza femminile, infatti, sta crescendo. Le arti figurative, anche se con ritardo rispetto alla letteratura, hanno, in quest'ambito professionale e scientifico, superato la musica, dove, alcuni tradizionali feudi maschili, come per esempio la direzione d'orchestra, ancora resistono. A proposito di questo, comunque, va evidenziata l'attività della Fondazione Adkins Chiti: Donne in musica, con sede a Fiuggi, che promuove iniziative, convegni e concerti. L'evoluzione del ruolo della donna nelle arti, si può misurare anche attraverso l’intensa e variata proposta bibliografica degli ultimi anni. L'inizio di questo processo si può collocare trentacinque anni fa, con la mostra L'altra metà dell'Avanguardia curata da Lea Vergine a Milano nel 1980. Si tratta di una vera e propria rivelazione: per la prima volta, infatti, con questa mostra, appare chiaro, attraverso capolavori decisivi, il ruolo delle artiste nella nascita e sviluppo dei movimenti dei primi decenni del secolo, con particolare riferimento alla Germania espressionista e alla Russia cubo-futurista e raggista. Bisogna dire, comunque, che il periodo era particolarmente propizio: il femminismo militante raccoglieva frutti, e, per adattare all'epoca una locuzione d'attualità, era necessaria un'iniziativa che valorizzasse la componente femminile, questa, infatti, sembrava senza dubbio "politicamente corretta" al milieu socio-culturale. Bisogna ricordare, pure, che durante gli anni '70 era particolarmente nutrita la schiera di artiste (Marina Abramovic, Carole Schneemann, Gina Pane, Rebeccca Horn, Laurie Anderson, Hannah Wilke, e Ana Mendieta) che aderirono alla body art internazionale, e che fecero scalpore grazie a performances rimaste celebri, in alcune delle quali il corpo femminile era polemicamente esibito oppure dolorosamente ferito, diventando connotazione irrinunciabile dell'intervento artistico. Gli anni '80,poi, caratterizzati dagli esiti delle campagne femministe, si chiudono in maniera simbolica con un'altra pietra miliare, il volume di scritti di Linda Nochlin Women : Art, Power and other Essays (1988). La brillante e appassionata studiosa inserisce all’interno un saggio importante, esplicitamente aperto dalla domanda centrale: Why have there been no great women artists? La risposta della Nochlin è molto equilibrata. Da un lato, l’autrice stigmatizza in maniera dura la tenace e perniciosa convinzione per cui dedicarsi alle arti figurative è stato considerato per secoli, forse millenni, sconveniente. Dall'altro, però, avverte, con un grande senso di premonizione, di non essere tentati di cadere nell'eccesso opposto, e cioè di voler a tutti i costi recuperare dall'oblio figure storiche di artiste secondarie, e studiarle solo in virtú del loro ''essere donne", e non per l’effettiva qualità delle loro opere. In altri termini, la Nochlin aveva compreso che l'epoca del femminismo storico si era chiusa, e proponeva con tono perentorio di superare ogni pregiudizio "sessuale" riguardo all'arte. Proposito generoso anche se difficile da seguire: tanto più che, proprio nello stesso anno, veniva distribuito nelle sale cinematografiche il film romanzato sulla vita di Camille Claudel, la prima grande scultrice della storia, impersonata da Isabelle Adjani, con Gérard Depardieu nel ruolo di Rodin, amante celebre, ma anche ingombrante e traditore. In Italia, nello stesso periodo, l'interesse per l'arte "al femminile" si riaccende grazie a Sofonisba Anguissola, la "virtuosa" ritrattista cremonese del secondo Cinquecento (una delle poche artiste dei secoli passati che certamente si può confrontare per esiti ed importanza con i coevi colleghi maschi) che con le due sorelle anch'esse pittrici e una vita lunga e particolare, è di sicuro una figura affascinante. Ben presto tuttavia, si ricade nel solito dualismo: agli studi specialistici, culminati in una bella mostra a Cremona (con tappe anche a Washington e Vienna, 1994), infatti, si sono affiancati articoli e scritti d'interpretazione psicologica e sociale (tra i quali si può segnalare- anche per la qualità- il libro di Flavio Caroli Sofonisba e le sue sorelle pubblicato da Mondadori nel 1987, al quale - lo stesso studioso- fa seguire, poco dopo, con un più preciso scopo di ricerca critica, il catalogo delle opere della specialista di nature morte Fede Galizia, pubblicato da Allemandi nel 1989), che hanno aggiunto qualcosa alla considerazione storico-critica dell'artista, spostando invece l'accento sul "personaggio". Nel corso degli anni '90 - mentre appaiono sempre più lontane le battaglie e le conquiste del femminismo della generazione precedente - è interessante osservare il crescente numero di "donne-critico" che si occupano di "donne artiste": c’è Vera Fortunati, curatrice della mostra dedicata a Lavinia Fontana, pittrice del Seicento bolognese (1994), Gioia Mori, autrice della monografia su Tamara de Lempicka (Giunti, 1994); Martina Corgnati, con uno studio su Meret Oppenheim (Skira, 1998); Orietta Pinessi, che ritorna su Sofonisba Anguissola scegliendo un titolo significativo : Un "pittore" alla corte di Filippo II (Selene Edizioni, 1998). A questi interventi di studiose italiane si può aggiungere, come esempio, il nome di Bettina Baumgártel, curatrice della mostra itinerante (Dússeldorf-Monaco-Coira, 1998-99, con una autonoma appendice a Roma) su Angelika Kauffmann, affascinante pittrice internazionale proto-neoclassica. Mentre l'arte contemporanea- spente le fiammate del femminismo- raggiunge la parità nelle quotazioni di mercato, per mezzo delle ricerche di studiose, si forma un nucleo selezionato di grandi artiste del passato. Il fatto che aumenta il numero di donne tra gli storici e i critici d'arte, oltre che nei ruoli dirigenziali dei musei e delle sovrintendenze, non stupisce se si osserva l’elevato numero di studentesse universitarie rispetto agli studenti. L'antologia d’eccellenza è doverosa: dal Rinascimento all'Impressionismo, quando le cose cominciano a cambiare, le donne artiste che possono essere considerate a tutti gli effetti vere professioniste dell'arte, su cui si concentra l'attenzione della critica, si possono contare sulle dita delle mani mani: Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana, Elisabetta Sirani, Artemisia Gentileschi, la simpatica olandese Judith Leyster, Rosalba Carriera, Elizabeth Vigée Lebrun, Angelika Kauffmann, Mary Cassatt e Berthe Morisot. Significativa è la componente italiana, che si conferma anche allargando l'orizzonte a una sorta di irriverente e forse ingiusta "seconda scelta" fra le pittrici dal tardo Rinascimento fino alla fine dell'Ottocento : Catharina van Hemessen, Mary Beale, Plauitilla Nelli, Clara Peeters, Fede Galizia, Margherita Caffi, Giovanna Garzoni, Maria Sybilla Merian, Josefa de Avala y Cabrera, Rachel Ruysch, Giulia Lama, Marguerite Gérard, Marie Guillemine Benoist, Rosa Bonheur, Eva Gonzalés. La presenza italiana è importante si per quantità che per qualità. A questo punto, quindi, emerge un’ulteriore questione : in diversi casi ci si rende conto che l'attività e le vicende private delle artiste si intrecciano strettamente con quelle di artisti a cui sono legate : ricompare il solito dualismo arte/vita. Ed ecco, quindi ,"rileggere" il rapporto padre/figlia, sia tra Orazio e Artemisia Gentileschi, che tra Prospero e Lavinia Fontana, o tra Jacopo Robusti (il Tintoretto) e Marietta Robusti, tra Rachel Ruysch e il padre Friedrich, conosciuto scienziato e imbalsamatore; il già citato legame tra le sorelle Anguissola; addirittura l'inversione dei ruoli madre/figlio tra Suzanne Valadon (oltretutto modella di Toulouse Lautrec e Renoir) e Maurice Utrillo; l'amore coniugale , la condivisione degli affetti (Judith Leyster e Jan Molenaer, Gabriele Múnter e Kandinskij, Sonia Delaunay e Robert Delaunay, Mariane von Verefkin e Alexej Javlenskij, Benedetta Cappa e Marinetti, Georgia O'Keeffe e il celebre fotografo Alfred Stieglitz, Antonietta Raphael e Mario Mafai, fino alla storia emblematica di Natalija Gontcharova e Michail Larionov, con il quale convive tutta una vita per sposarlo a 74 anni), il rapporto contrastato, che si conclude in crisi dai risvolti drammatici (Camille Claudel e Rodin, Meret Oppenheim e Max Ernst, Frida Kahlo e Diego Rivera), fino alla tragedia che unisce Jeanne Hébuterne e Modigliani o il caso particolare di Berthe Morisot, che sposa Eugène, fratello del suo pigmalione Edouard Manet, con la complicazione del rapporto fra questi ed Eva Gonzalés. È evidente, anche, la ricerca del pettegolezzo, come se si debba avvolgere la figura delle donne artiste tra i risvolti affascinanti ma spesso un po’ equivoci della cronaca rosa, anzi, quando possibile, anche di quella nera. Sono, in effetti, situazioni complesse, con una lista che potrebbe continuare a lungo, e dalle quali poche grandi artiste del passato sono riuscite a sfuggire: ad esempio, Rosalba Carriera e Mary Cassatt sulle quali, al contrario, pesa lo spettro dello "zitellaggio". Una svolta è arrivata grazie al libro di Mary Ami Caws che annuncia l’intenzione di uscire dal cerchio sempre più soffocante di figure maschili anche professionalmente dominanti: Dora Maar with or without Picasso (Thames and Hudson, 2000). Dora Maar si libera dell’ossessiva ombra di Pablo Picasso e viene restituita, con un tocco di sarcastica solidarietà femminile, alla sua dimensione di brava e coraggiosa pittrice e fotografa. Certo, a ricerche raffinate si uniscono con continuità i prodotti cinematografici (i film e i libri sulle figure di Artemisia Gentileschi e Frida Kalhlo, ad esempio): ci chiediamo, a questo punto, cosa dovrebbe dire Leonardo del Codice da Vinci o Vermeer della Ragazza con l’orecchino di perla?). Sono logiche dell'attenzione del pubblico sollecitato da aspetti romanzeschi. Un esempio di grazia ed equilibrio è il libro delle "memorie" di Elizabeth Vigée Lebrun, giunta in Italia per sfuggire alla rivoluzione, curate da Fernando Mazzocca. Siamo ormai ai giorni nostri, e analizzando il panorama editoriale non si riesce a dare totalmente ragione a Martina Corgnati che, nell'introduzione al suo volume, parla di una “letteratura sull'argomento ancora molto povera, specie in confronto a quanto è stato prodotto negli ultimi trent'anni nei paesi anglosassoni". Forse, visto che la studiosa si riferisce alle artiste dell'ultimo secolo, si potrebbe fare un confronto tra l'Italia e l'estero su "quanto si è prodotto" nell'editoria specializzata, riguardo all'arte "al femminile", e questo potrebbe spiegare la maggiore incidenza di studi, mostre, monografie, saggi dedicati all'arte contemporanea. Si può segnalare, anche, che Selene Edizioni ha la collana L'Altra metà dell'Arte, ideata da Tiziana Agnati e diretta da Daniela Bigi e Lia Giachero, tutta dedicata a biografie e approfondimenti sulle donne artiste, mentre nelle collane Carte d'Artista e Miniature anche Abscondita dedica spazio agli scritti e a all'attività delle artiste. Queste pubblicazioni, unite a un libro di larga diffusione come Arte al femminile di Simona Bartoleria, ci confermano un’attenzione diffusa e condivisa.
I GIARDINI DELL'ARTE Fascino e realtà da Arshile Gorky a oggi
Introduzione
di Arpinè Sevagian
I giardini dell’arte
Un po’ di storia...
Il giardino non è soltanto un respiro della natura, è luogo di filosofia. Al dilà di quanto dissero Epicuro o Cicerone, va aggiunto che il primo giardino fu quello dell'uomo che scelse di interrompere le proprie peregrinazioni. E il primo giardino avvisò il mondo che si era smesso di credere all'incanto della creazione […].Tra uomo e Dio.
Armando Torno «La Lettura - Corriere della Sera» 15-04-2012
Il giardino è uno “specchio” in cui uomini di varie epoche e luoghi hanno modificato la natura in base a ragioni di ordine religioso, filosofico, sociale, politico, culturale, raccontando la storia vissuta. Il tema del giardino, è sempre stato-sia a livello concettuale che stilistico-molto caro agli artisti di tutti i tempi e molto diverso rispetto a quello del paesaggio. Il giardino nell’arte era, infatti, metafora. Nel Medioevo due grandi poli tematici si rincorrevano: l’Hortus conclusus-metafora della verginità di Maria-e l’Hortusì deliciarum- il giardino delle delizie-luogo dei piaceri terreni e sensuali della corte. Sia nell’arte che nella letteratura di ogni tempo e luogo, ci siamo trovati spesso di fronte al Giardino dell’Età dell’Oro, un luogo mitico, simbolo di un tempo perfetto in cui gli uomini vivono felici e liberi da malattia, morte, peccato. Cristianesimo, Ebraismo e Islam, vedono l’aldilà come un giardino: questo porta a pensare che l’uomo immagina la felicità perfetta e ideale nella comunione con la natura. Alcune opere letterarie del Medioevo erano ambientate in giardini : il Decameron di Giovanni Boccaccio,
l’Hypnerotomachia Polyphili di Francesco Colonna, il Roman de la Rose di Guillaume de Lorris e Jan de Meun. Il “Giardino d’Amore” era un altro tema ricorrente dell’arte e della letteratura che si contrapponeva al “Giardino del Paradiso”: luogo d’incontri romantici ed erotici, di seduzione, felicità e piacere. La diversità tra “Giardino del Paradiso” e “Giardino d’amore” era che in quest’ultimo gli amanti godevano liberamente dei frutti senza divieti. Esclusi da questi erano i temi dell’ubbidienza, disubbidienza e del peccato. Mentre presenti erano i simboli di altri aspetti dei piaceri dei sensi (come il cibo e la musica) con tavole imbandite e musici che abbandonavano i loro strumenti per prenderne parte. Significativa era anche la presenza della fontana come fonte dell’eterna giovinezza. Diverso il discorso per gli artisti cinesi e giapponesi, i “giardini” di Hokusai e di Hiroshige erano essenziali e “limpidi” alla ricerca della meditazione e di un equilibrio interiore. Riflesso di un ordine e un’armonia naturale esteriore come modello per l’ordine e l’armonia interiore. Nella pittura romantica il giardino era quanto di più lontano si possa pensare dal concetto di “sublime”. Proprio per questa sua caratteristica di limitatezza e chiusura, il giardino era presente in pochi dipinti romantici, ed era una metafora perfetta per descrivere e rivelare quella parte dell’anima più intima che si sente ingabbiata, limitata come un giardino di fronte alla vastità del mondo. Caspar David Friedrich ne “La terrazza del giardino” del 1811-12 rappresentò due paesaggi uno dentro l’altro, come due scatole cinesi: in secondo piano il paesaggio naturale, vario, irregolare, soleggiato; in primo piano un giardino fatto di aiuole geometriche e vialetti di ghiaia, delimitato da un muretto e da un cancello chiuso, con due leoni di pietra a fare da guardia, avvolto nella penombra. Nel giardino siede una donna che legge, di spalle, raccolta in se stessa. Il giardino rappresenta l’interiorità della donna raccolta nella lettura, il paesaggio soleggiato rappresenta il mondo al di fuori di lei. Un’interpretazione simile è quella che propone Goustave Courbet in “Signora alla terrazza o la signora di Francoforte”, 1842 ca. Lo spazio rappresentato si articola fra la terrazza (ideale prolungamento delle mura domestiche) e il giardino (spazio fra casa e mondo). La donna seduta in terrazzo è avvolta dai pensieri, tanto da non accorgersi dello spettacolare tramonto che incendia il cielo intorno a lei. Sdoppiata signora alto-borghese, divisa fra le sicurezze della casa, della famiglia, delle convenzioni sociali, e il desiderio di lasciarsi trasportare dall’avventura, di scoprire la vastità e la varietà del mondo, presenti nella natura e nel tramonto, resta lì, indifferente alla natura circostante. I giardini nell’arte sono questo: uno spazio del mondo, un riparo segreto, spazio astratto di piacere, libertà e fuga dai tormenti della vita che si calmano a contatto con la natura. Una natura trasformata dall’uomo a sua immagine e somiglianza, che rispecchia la cultura del suo tempo con tutti i suoi limiti, sogni e trasgressioni.
1917-2017
VERITA' E MENZOGNA
L'arte contemporanea da Marc Chagall a oggi
Introduzione
VERITÀ e MENZOGNA
di Arpinè Sevagian
“L’arte è una menzogna che ci avvicina alla verità”.
Pablo Picasso
Pablo Picasso, in poche parole, sintetizza, con questa sua breve affermazione, la ragione per cui segni, forme e colori, hanno la facoltà connessa di raccogliere, nel loro semplice mostrarsi, tutta la capacità dell’artista di trasporre sull’opera, una diversa, ma più complessa, visione del complicato sentire umano. Questo processo sembrerebbe possibile solo per mezzo dell’inganno, la menzogna. L’analisi dell’opera d’arte ci consente di scoprire un inaspettato punto di contatto, altrimenti impossibile, con le complessità dell’anima, e ci permette di avvicinarci alla forma più nascosta, ma comunque percettibile, della verità. Per mentire l’artista deve stravolgere il tutto – spesso in maniera totale, di proposito. La realtà che lo circonda, il mondo tangibile, che prende in prestito, viene così elaborato mediante il processo creativo. L’artista domina il contesto, facendolo suo, cambiandolo in base alla sua sensibilità, riproponendolo mutato in una diversa visione; in una dimensione intima che condivide con lo spettatore e che diventa, nell’opera, più credibile della realtà stessa, più verosimile di quella con la quale ci confrontiamo nel quotidiano vivere e che viene erroneamente sentita e percepita come l’unica possibile, l’unica esistente. L’arte è, quindi, mentitrice e bugiarda - come dice Pablo Picasso - poiché, già nel suo assunto d’esistenza crea una maschera artificiosa di finzione, un’ immagine che vuole essere il legame con qualcosa che va ben oltre l’opera stessa. Quest’ultima è solo il mezzo, il tramite, attraverso il quale condurre in una entità alternativa, certamente superiore, sicuramente differente. L’opera è l’appiglio che permette di arrivare, senza farsi troppo disturbare dall’apparenza, all’essenza pura del percepire, alla verità di cui parla Picasso. L’arte ci offre un compendio eccezionale ed imprevedibile, a volte concavo, a volte convesso, splendido e alterante, uno spazio che manipola la scontata esteriorità, come una superficie che riflette e smaschera l’ovvietà del reale, per sbaglio considerata attendibile ed unica, mentendo, per innalzare la conoscenza ad un livello di verità vera, non più visibile, ma avvisabile solo attraverso le emozioni. Il punto di partenza, l’imprinting figurale e non, è, comunque, sempre il reale, per quanto in molti casi l’artista, a lavoro terminato, se ne ritrovi completamente separato. Nella pittura informale, ad esempio, la scelta è quella di rinunciare a qualsiasi contenuto descrittivo, a favore di una sperimentazione rivolta ad una più elevata e nobile purezza, la verità assoluta, di conoscenza. Il dato reale viene programmato e ricondotto all’opera diverso da come era in all’inizio, mutato, sconvolto, a volte annientato, per dimostrare quell’ autonomia caratteristica dell’unico medium in grado di andare oltre la semplice mimesis, oltre la banale riproduzione. L’unico medium che soddisfa l’esigenza dell’artista di esternare la propria l’emotività e interiorità. In sintesi, tutta l’arte è menzogna? Anche nel più fedele realismo, iperrealismo, nella fotografia meccanica? No. Per allontanarsi dalla verità ci si avvicina all’astrazione, con lo scopo di arrivare a nuovi contenuti inalterabili, sconfinati e immutabili. Tutta l’arte è quindi astrazione? No. Il processo creativo che permette di attingere dall’apparenza, di considerare un oggetto (o un’idea) solamente in alcune sue parti distinte e non nella sua totalità è invenzione. L’astrazione è considerata come un processo con cui l’uomo (e non Dio, in quanto già astrazione pura) può arrivare, per mezzo dell’analisi del singolo particolare, all’immensità della sintesi universale, andando oltre ogni condizione limitata dalla precarietà e dalla limitatezza. Questa astrazione è quella possibilità, vista come il tentativo artistico di raggiungere concetti assoluti, partendo da spunti che fanno parte del mondo sensibile, per metterne da parte ogni caratteristica oggettuale, spazio-temporale e superarne la fugacità. Un separarsi dalla realtà che parte da essa, che in lei mantiene salde le radici e che a lei ritorna, per poter essere guardata, riflettuta e fruita e per far questo compie un percorso di allontanamento e di riavvicinamento, un tragitto dove diventa fondamentale la figura dell’artista. “... qui abbiamo a che fare con esseri umani, e gli esseri umani sono universalmente riconosciuti per essere gli unici animali in grado di mentire, e mentre è vero che qualche volta mentono per paura, qualche volta per il proprio interesse, essi talvolta mentono perchè realizzano, appena in tempo, che questo è l’unico modo possibile per difendere la verità”. (José Saramago, Saggio sulla lucidità, 2004).
Quando l’opera d’arte propone una menzogna, l’artista propone la propria idea manipolata, per creare un ponte tra un reale apparente e una realtà che non muta, nuda oramai di accidenti; luogo di contenuti prelogici e incorruttibili; “raggio che giunge dalle profondità” e che notturnamente, misteriosamente, infallibilmente scopre gangli non più scindibili di verità (D’Amico, 1990). Un ponte attraverso il quale oltrepassare quel confine raffigurato da un fiume in piena che va oltre i limiti della consuetudine. La menzogna raccontata dall’artista, visionario che deforma e stravolge con gli strumenti della creazione artistica l’apparire tangibile, il mondo, così come siamo abituati a considerarlo e vederlo ogni giorno, è quella di cui parla Pablo Picasso. L’opera è l’artificio che ci avvicina alla verità. Tanto più siamo lontani dalle sue elaborazioni, tanto più siamo lontani dalla verità. L’opera ci permette di capire il rapporto verità apparente - finzione – verità. Se consideriamo il tutto con il lume della ragione, l’artista, è il bugiardo per eccellenza, colui che astrae un concetto per raccontarcelo formulato in base alla propria fantasia e inventiva, che fa la propria convenienza di mentitore. Se però analizziamo la stessa questione dalla sfera della sensibilità, scopriamo con stupore e meraviglia che l’opera d’arte ci permette di svelare una dimensione ipocrita e falsa, considerata generalmente esclusiva, per la sua facilità di osservazione.
“El arte es una mentira que nos acerca a la verdad”. (Pablo Picasso)
“… aqui estamos a tratar com humanos, e os humanos são universalmente conhecidos como os únicos animais capazes de mentir, sendo certo que se às vezes o fazem por medo, e às vezes por interesse, também às vezes o fazem porque perceberam a tempo que essa era a única maneira ao seu alcance de defenderem a verdade. (José Saramago, Ensajo Sobre a lucidez, 2004)